lunedì 24 gennaio 2011

CHE COS’É LA “SOGLIA ANAEROBICA” di Aldo Sassi

Il concetto di “soglia” ha poco più di 40 anni. Nel 1959 al Third Pan-American Congress of Sport Physican, tenutosi a Chicago, il fisiologo tedesco Wildor Hollmann, commentando l’andamento di alcuni parametrici fisiologici in uno sforzo condotto a carichi crescenti al cicloergometro, introdusse l’idea che al di sopra di certe intensità di esercizio la richiesta energetica potesse essere coperta dal metabolismo anaerobico, in aggiunta a quello aerobico.

Come sappiamo, il metabolismo aerobico è quella via metabolica attraverso la quale il nostro organismo brucia gli alimenti assunti combinandoli con l’ossigeno respirato, producendo in questo modo energia utile alla contrazione muscolare. A riposo, consumiamo poco ossigeno, perché ci serve poca energia e, dunque, bruciamo pochi alimenti. Man mano che l’intensità della nostra attività fisica cresce, aumenta la quantità di energia necessaria per sostenerla e con essa la velocità con la quale gli alimenti (che sono la nostra benzina) vengono bruciati con l’ossigeno inspirato (ciò, di conseguenza, fa sì che aumenti anche la quantità d’aria respirata ogni minuto). L’intensità massima dello sforzo che possiamo compiere avvalendoci prevalentemente dell’energia fornita da questo sistema – che, essendo basato sull’utilizzazione dell’ossigeno presente nell’aria, viene appunto detto aerobico – è grossomodo pari a quella che siamo in grado di sviluppare per non più di 5 minuti circa: in sforzi massimali di questa durata, il consumo di ossigeno può raggiungere il 100 per cento rispetto alle capacità del soggetto, cioè il cosiddetto massimo consumo di ossigeno (solitamente indicato dalla sigla VO2max ): intorno a 3 litri al minuto in un sedentario, circa il doppio in un campione del ciclismo. Correndo o pedalando, passando da uno sforzo blando a uno via via più intenso, crescerà in maniera quasi proporzionale la necessità di energia, dunque quella di ossigeno e, con essa, la frequenza cardiaca, espressione del crescente lavoro compiuto dal cuore per pompare sempre più sangue arricchito di ossigeno dai polmoni ai nostri muscoli. Succede però che l’aumento di queste variabili non sia lineare (cioè non sia costante) sino al raggiungimento del massimo consumo di ossigeno: superati i 2/3 circa di questa intensità massima, in uno sforzo a carichi crescenti, si osserva una più repentina accelerazione della ventilazione e anche dell’accumulo di acido lattico nel sangue.

Quando dobbiamo produrre moltissima energia in pochissimi secondi – come in uno sprint dell’atletica leggera o del ciclismo, oppure in conseguenza di un rapido passaggio da un’attività blanda a una più intensa – il nostro organismo non è in grado di far fronte al repentino aumento della richiesta di energia solamente accelerando i processi di combustione degli alimenti con l’ossigeno inspirato (accelerazione che richiede tempi dell’ordine delle decine di secondi, e che può comunque non essere sufficiente a coprire completamente le accresciute richieste energetiche). Così questo surplus di energia viene in buona parte prodotto degradando gli zuccheri senza bruciarli con l’ossigeno, attraverso una via metabolica che viene pertanto detta “anaerobica”, senza ossigeno, e che porta alla formazione del cosiddetto acido lattico (quello che fa percepire bruciore ai muscoli dopo una rampa di scale fatta di corsa, per intenderci).

La formazione dell’acido lattico, dunque, è espressione dell’attivazione del metabolismo anaerobico; proprio questo aveva fatto notare Hollmann in quel Congresso del 1959, introducendo l’idea che al di sopra di determinate intensità di esercizio la copertura delle necessità energetiche fosse garantita non solo dal metabolismo aerobico (alimenti bruciati con l’ossigeno), ma anche da quello anaerobico (zuccheri degradati senza consumo di ossigeno, con formazione di acido lattico). Ed è questo, in sostanza, ciò che il concetto di soglia anaerobica significa ancora oggi, dopo oltre quarant’anni: l’intensità metabolica alla quale il metabolismo energetico da totalmente aerobico diviene parzialmente anaerobico.

Il termine vero e proprio di “soglia anaerobica” venne introdotto nel 1964 da Wasserman e Mciloy, per definire – in test condotti a carichi progressivamente crescenti – l’intensità alla quale una “impennata” della ventilazione e di altri parametri riflette il passaggio tra le due condizioni citate: quella completamente aerobica e quella parzialmente anaerobica. Essendo basata sull’analisi dell’andamento di parametri ventilatori, la soglia determinata con le metodiche successivamente codificate da Wasserman viene appunto detta “ventilatoria”. Le ricerche che seguirono tendevano a mettere in relazione l’intensità dello sforzo alla quale si verifica l’impennata della ventilazione con la concomitante accelerazione dell’accumulo dell’acido lattico nel sangue. Ma erano sperimentazione condotte sempre su test incrementali, ossia protocolli nei quali la potenza viene aumentata di poche decine di watt ogni 30-60 secondi (aumentando l’inerzia della bici stazionaria su cui pedala l’atleta), fino a raggiungere valori tanto elevati da determinare l’esaurimento del soggetto, cioè la sua incapacità di proseguire l’esercizio (cosa che, in simili situazioni, avviene dopo 10-15 minuti di lavoro a intensità crescente). In sostanza, dunque, si andava ad analizzare – come si fa tuttora con protocolli di questo genere – ciò che avviene in condizioni definite “transienti” da un punto di vista fisiologico, nelle quali, cioè, sono in atto degli adattamenti (aumento della frequenza cardiaca, della ventilazione eccetera) che nelle poche decine di secondi di intervallo tra ciascun carico e il successivo non consentono all’organismo di “mettersi in equilibrio” (e quindi si assestarsi) rispetto al livello della richiesta energetica che il carico raggiunto comporta. Il corpo, in pratica, non fa in tempo ad adeguarsi completamente alla nuova situazione, che già gli viene imposto di sostenerne una più impegnativa.

Tenuto conto di questo fatto, restava da osservare cosa succede invece in condizioni “di equilibrio”, quelle cioè che si possono ottenere dopo che si sta lavorando per alcuni minuti (non meno di una decina) a una stessa intensità. Uno dei primi gruppi di ricerca a effettuare questo tipo di verifica fu, nel 1981, quello di Liegi, composto da Scheen, Juchems e Cession-Fossion, che esaminarono l’andamento dell’acido lattico e di altri parametri durante prove di carico costante, ciascuna della durata di 20 minuti. Osservarono che a intensità di lavoro pari al 40-50 per cento circa del VO2max la concentrazione ematica dell’acido lattico si elevava nei primi minuti di esercizio, per poi iniziare a calare molto lentamente nel prosieguo dello stesso, pur continuando a rimanere al di sopra dei livelli basali anche al ventesimo minuto (la maggior elevazione transitoria iniziale è dovuta all’inerzia di regolazione del metabolismo aerobico, che, come già detto, richiede diverse decine di secondi prima di raggiungere una condizione di equilibrio, ciò comporta, nella fase iniziale dello sforzo, un’attivazione di un certo rilievo del metabolismo anerobico, evidenziata dal conseguente accumulo di acido lattico nel sangue, che poi viene in parte progressivamente rimosso). Per carichi di intensità superiore al 60 per cento circa del VO2max notarono invece che l’aumento della concentrazione di acido lattico nel sangue era costante, fino al momento della cessazione della prova. Per carichi intermedi – tra il 50 e il 60 per cento circa del VO2max – il lattato ematico aumentava nei primi 10 minuti dello sforzo, per poi attestarsi su un valore costante fino al termine dell’esercizio (ventesimo minuto). I tre studiosi definirono questa condizione “steady-state lactate threshold”, cioè “soglia del lattato costante” e, cosa non di poco conto, evidenziarono che durante carichi costanti (a differenza di quelli incrementali) questa soglia anaerobica “lattacida” non coincide come intensità lavorativa con quella “ventilatoria” rilevabile secondo la deduzione di Wasserman.

Nel contempo, con pubblicazioni del 1981 e del 1982, il gruppo tedesco di Stegmann e Kindermann precisò il concetto di soglia anaerobica, identificandola con il cosiddetto “massimo lattato in steady state” (abbreviato in iniziale MLSS), che rappresenta la massima intensità lavorativa individuale alla quale si verifica una condizione di lattato costante, cioè la massima intensità alla quale esiste un equilibrio tra lattato (prodotto dai muscoli) che entra in circolo e lattato che viene rimosso dal sangue (quest’ultimo lo cede ad altri organi, come cuore e fegato, in grado di utilizzarlo).

Riassumendo e cercando di semplificare, il concetto di soglia anaerobica e riconducibile al seguente fenomeno fisiologico: a blande intensità di lavoro, i muscoli producono lentamente acido lattico che va nel sangue, ma che al tempo stesso il sangue rimuove cedendolo ad altri organi e tessuti (muscoli non coinvolti intensamente nell’esercizio). Ciò avviene ad una velocità tale da tenere il passo con la produzione, così da non far aumentare sensibilmente il livello assoluto della presenza del lattato nel sangue. Aumentando l’intensità dello sforzo, la velocità di produzione e di entrata dell’acido lattico nel circolo sanguigno aumenta, e con essa cresce parimenti la velocità di rimozione, che permette di mantenere una condizione di relativo equilibrio tra le due fasi. Ma aumentando ulteriormente l’intensità dello sforzo, raggiunto un certo limite, la capacità di rimozione raggiungerebbe il suo livello massimo, cioè un tetto. Il più alto livello di sforzo fisico al quale la capacità di rimozione del lattato è comunque tale da contrastare la produzione di lattato stesso, corrisponde al MLSS, cioè alla vera e propria soglia anaerobica. Andando oltre, la velocità di produzione supera inesorabilmente quella di rimozione, determinando un progressivo accumulo di acido lattico nel sangue. Quest’ultima condizione è quella a cui un atleta si riferisce quando dice: “sono fuori soglia”o “sono in acido”, lasciando intendere che di lì a poco quel continuo crescere dell’acido lattico nel sangue – espressione dell’intensa produzione muscolare – gli “intossicherà” le gambe, disturbando la contrazione muscolare stessa (per effetto degli ioni idrogeno che lo compongono) e, conseguentemente, obbligandolo a diminuire l’intensità dello sforzo.

Questa, dunque, è la concezione più diffusa del concetto di soglia anaerobica intesa come massimo lattato in steady-state, ma è una concezione del fenomeno abbastanza grossolana e imprecisa. Un tempo si era portati a ritenere che in uno sforzo prolungato a carico costante la concentrazione di acido lattico nel sangue riflettesse quella presente nei muscoli, arrivando progressivamente a un equilibrio tra questi due comparti: si considerava infatti che il lattato passasse dalla cellula muscolare al sangue quasi esclusivamente per semplice diffusione. Oggi, grazie al lavoro di numerosi autori – tra i quali vale la pena citare Brooks e Gladden – sappiamo che mentre alcuni muscoli producono acido lattico, ve ne sono altri che lo utilizzano; che gli equilibri del lattato tra cellula e sangue sono regolati da meccanismi assai complessi, risultanti dall’interazione di sistemi attivi di trasporto – le proteine di trasposto monossilate, dette MCT – con i meccanismi di diffusione; che il funzionamento di questi ultimi è condizionato dalla diversa concentrazione di ioni idrogeno (H+) che si viene a determinare tra l’interno e l’esterno della cellula; e che - fatto assai importante - in definitiva l’acido lattico non può più essere considerato un mero prodotto terminale, uno scarto, un semplice rifiuto risultante dalla degradazione anaerobica degli zuccheri ma deve essere preso in considerazione nel suo più complesso ruolo di regolatore biochimico e di mediatore dei processi energetici nel loro complesso.

Quanto appena detto può risultare nebuloso per chi non abbia un minimo di dimestichezza con questi argomenti, ma in sostanza il messaggio è questo: l’acido lattico non è da considerarsi solo come un veleno per i nostri muscoli, come molti ciclisti sono portati a pensare.

Per ritornare all’evoluzione del concetto di soglia anaerobica, si può dire che il MLSS è divenuto poi il “gold standard” della soglia stessa, cioè il criterio di rifermento, sia da un punto di vista teorico (massimo equilibrio possibile tra produzione e rimozione del lattato), sia dal punto di vista della misura; tant’è che a oggi la più semplice modalità diretta per determinare la soglia anaerobica si basa sulla esecuzione di un protocollo simile a quello del citato lavoro di Scheen e collaboratori: far fare a un soggetto tante prove a carico costante, ciascuna della durata di 20-30 minuti e in giornate differenti, per far si che l’affaticamento di una prova non influisca sul risultato della successiva.

È evidente come questo metodo richieda molte sessioni di test per arrivare, attraverso vari tentativi, a individuare il MLSS: un protocollo di fatto improponibile per un ciclista che voglia eseguire delle valutazioni di routine. Per questo motivo i metodi indiretti – come il test di Conconi, o il metodo ventilatorio di Wasserman, o altri ancora – hanno avuto ben più ampia diffusione tra gli sportivi.

Sul finire degli anni Settanta, alcuni autori tedeschi, tra i quali Heck e Mader, avevano notato che la soglia anerobica corrisponde mediamente a una concentrazione di 4 mmol/l (millimoli per litro) di lattato ematico. Questo valore ha assunto con il tempo un’importanza emblematica, al punto da essere utilizzato in termini pratici – spesso con eccessiva disinvoltura scientifica – per individuare la soglia anaerobica non solo nei test incrementali ma anche in quelli a carico costante e negli esercizi sportivi di qualsiasi genere (dalla gara in bicicletta alla partita di calcio...), il che ha generato non poca confusione e sovente grossolani errori interpretativi.

Vi sono tre punti da tenere sempre ben presenti a questo riguardo: il primo è che il valore di 4 mmol/l individua mediamente la concentrazione di lattato alla soglia anaerobica, ma la variazione tra un soggetto e l’altro può essere anche di 1 mmol/l in più o in meno (approssimativamente un terzo degli atleti ha meno di 3,3 mmol/l o più 4,7 mmol/l!). Il secondo è che la concentrazione di lattato (per esempio, le 2 o le 4 mmol/l) corrispondente a una certa intensità lavorativa, quando è rilavata in un test incrementale non corrisponde a quella che si riscontra poi - a pari intensità - in uno sforzo costante prolungato per decine di minuti. Il terzo è che la concentrazione di 4 mmol/l è espressione di sforzi fisici ed equilibri interni estremamente diversi quando sia riscontrata in una partita di tennis o di calcio piuttosto che al cicloergometro, e si deve stare dunque attenti a non cadere in interpretazioni errate del suo significato, assimilandolo a quello che assume in esercizi a carico costante o incrementale.



Dal libro - Dalla parte del ciclismo. Etica dello sport, nuove tecniche di allenamento e lotta al doping – Sperling&Kupfer Editori